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Primi risultati del follow-up sulla città di Brescia
di Stefania Cerea (Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani)

In questa nota presentiamo i primi risultati del follow-up condotto sul campione bresciano del progetto IN-AGE[1] allo scopo di individuare gli impatti prodotti dalla pandemia da SARS-CoV-2 sulle persone anziane. Il follow-up è stato condotto fra luglio e settembre 2020, tramite interviste telefoniche, e ha coinvolto 20 dei 24 anziani intervistati nel 2019.

Gli effetti potenzialmente contrastanti della pandemia

La pandemia da SARS-CoV-2 potrebbe aver avuto effetti contrastanti sulle persone anziane che vivono sole e in condizione di fragilità fisica. Da un lato, infatti, abitare sole potrebbe aver costituito per queste persone un fattore di protezione dal contagio, che in termini di sintomaticità e di mortalità ha inciso maggiormente proprio sulla popolazione anziana e fragile[2]. Dall’altro lato, gli effetti del virus potrebbero essersi manifestati in via indiretta attraverso cambiamenti di segno negativo nelle reti di cura e nelle reti sociali, prodotti non tanto dalla pandemia in sé, quanto dalle restrizioni messe in atto per contenerla e dalle paure che il virus ha alimentato. Ed è proprio allo scopo di capire gli impatti indiretti prodotti dalla pandemia sulle persone anziane già intervistate nell’ambito della ricerca IN-AGE nel corso del 2019, che si è deciso di realizzare un follow-up su quanto accaduto durante la prima fase del contagio (febbraio-maggio 2020). In particolare, sono stati indagati gli effetti della pandemia su due delle principali dimensioni analizzate nel corso della precedente indagine: 1. fragilità, reti di cura e accesso alle prestazioni sanitarie; 2. reti sociali, ruolo degli strumenti di comunicazione e senso di solitudine.

La pandemia a Brescia: diffusione e mortalità

Come noto, è possibile considerare la regione Lombardia come l’“epicentro” italiano della pandemia da SARS-CoV-2. Il primo caso italiano di Covid-19, infatti, è stato accertato il 20 febbraio 2020 a Codogno, comune lombardo della provincia di Lodi[3]. Questa provincia e quella di Cremona hanno “guidato la classifica” delle province a più alta diffusione del contagio durante tutta la prima fase della pandemia (febbraio-maggio 2020), arrivando a superare all’inizio di giugno rispettivamente i 1.500 e i 1.800 casi totali ogni 100.000 residenti. A seguire, le province di Bergamo e di Brescia, con l’incidenza della prima che ha superato quella della seconda fino al 21 aprile, data dopo la quale i valori registrati nelle due province si sono sostanzialmente allineati, attestandosi ai primi di giugno attorno ai 1.200 casi totali ogni 100.000 residenti (fig. 1).

Figura 1 – Numero dei contagi totali da Covid-19* per 100.000 residenti nelle province lombarde maggiormente colpite dalla pandemia (25 febbraio – 2 giugno 2020). Fonte: nostre elaborazioni su dati della Protezione civile (contagi totali) e dell’Istat (popolazione residente al 1° gennaio 2020).

* In Italia, durante la prima fase della pandemia i tamponi diagnostici erano effettuati solo sulle persone sintomatiche. Dunque, i dati in tabella non comprendono né i casi asintomatici, né i casi sintomatici che non si sono rivolti all’autorità sanitaria.

** Prima del 25 febbraio non sono disponibili dati di livello provinciale.

 

Uno sguardo ai dati sui decessi non fa che confermare il “primato” delle province lombarde già menzionate. L’incidenza dei decessi imputabili al Covid-19 sul totale dei decessi avvenuti nel periodo gennaio-maggio 2020, ha visto nettamente al primo posto la provincia di Lodi (37%), seguita da quelle di Bergamo (30%), Cremona (29%) e Brescia (28%), nelle quali all’incirca tre deceduti su 10 sono risultati positivi al Covid-19. E i tassi di mortalità per Covid-19 per 100.000 abitanti non fanno che replicare quanto appena osservato (fig. 2).

Figura 2 – Incidenza dei decessi dovuti al Covid-19 e tasso di mortalità per Covid-19 standardizzato per 100.000 abitanti, nelle province lombarde maggiormente colpite dalla pandemia (gennaio-maggio 2020). Fonte: nostra elaborazione su dati Istat-Iss 2020[4].

Durante la prima fase della pandemia, dunque, Brescia è stata fra le primissime province italiane per diffusione del contagio, incidenza dei decessi e tasso di mortalità da Covid-19. E anche in quest’area, come accaduto ovunque, il Covid-19 ha avuto un esito infausto principalmente fra le persone più anziane e più fragili. Le informazioni sull’età e sulle patologie pregresse dei deceduti sono più frammentarie di quelle presentate finora, ma forniscono un quadro piuttosto chiaro. I primi dati resi pubblici da ATS Brescia, sui 1.521 decessi da Covid-19 avvenuti in provincia fino al 1°aprile 2020, mostrano che l’età media dei deceduti era di 77,4 anni, che l’81% aveva più di settant’anni e che l’87% aveva almeno una patologia pregressa (Brescia Today 2020[5]). I dati pubblicati dal Ministero della Salute, sui 144 decessi da Covid-19 avvenuti in città fra il 6 maggio e il 2 giugno 2020, mostrano che l’85% dei deceduti aveva almeno 75 anni (Ministero della Salute, DEP Lazio 2020[6]).

A fronte di questi dati, che mostrano la forza con cui la pandemia ha colpito Brescia, quali effetti ha prodotto quest’ultima, il lockdown che ne è conseguito e i timori che ha alimentato, sulle reti cura e sulle reti sociali delle persone anziane?

Fragilità, reti di cura e accesso ai servizi sanitari

Stando ai dati del follow-up IN-AGE, la pandemia, e ciò che ne è conseguito in termini di restrizioni e paure, sembrerebbero aver colpito maggiormente, fra le persone anziane intervistate, quelle con un livello di fragilità lieve o moderato, piuttosto che quelle con limitazioni fisiche elevate o molto elevate[7]. Il dato, sebbene non scontato, si spiega piuttosto facilmente. Se consideriamo, per esempio, il tema della mobilità, gli anziani con minori limitazioni fisiche erano quelli che uscivano di casa più spesso, anche se supportati da un ausilio. Le restrizioni ai movimenti imposte dal lockdown, ma anche il timore di uscire e contrarre il virus, hanno peggiorato le loro condizioni, privandoli di quell’esercizio fisico che permetteva loro di conservare le capacità di movimento residue. Mentre le lunghe file per fare la spesa o andare in farmacia hanno complicato il reperimento dei beni essenziali. Al contrario, le persone anziane con limitazioni fisiche elevate o molto elevate, uscendo poco o per nulla già prima della pandemia, non hanno riscontrato peggioramenti. Possibile indice di una tenuta complessiva delle reti di cura.

 

La famiglia sembra aver “retto” agli effetti della pandemia. Un peggioramento nel supporto dei familiari è avvenuto per “cause di forza maggiore”: un figlio che si è ammalato di Covid-19, una figlia soggetto a rischio, una nipote residente fuori provincia “bloccata” dal lockdown. Nel resto dei casi in cui almeno un aiuto familiare era presente anche prima della pandemia, questo è continuato, anche grazie a precauzioni quali il distanziamento sociale e la mascherina. In alcuni casi, la presenza e il ruolo dei familiari si sono persino accentuati, per sostituire in tutto o in parte altri nodi della rete di cura, pubblici o privati.

Come la famiglia, anche i servizi pubblici non sembrano aver subito particolari “sommovimenti”. Il Servizio di Assistenza Domiciliare (SAD), ad eccezione di qualche sporadica riduzione di frequenza, è continuato anche durante la prima fase della pandemia, così come la consegna dei pasti a domicilio. Inoltre, il Servizio sociale del Comune di Brescia, proprio per far fronte all’emergenza, ha istituito un servizio al quale ci si poteva rivolgere per ottenere aiuti di carattere sporadico, come l’accompagnamento in farmacia o in banca, di cui qualcuno si è avvalso.

I servizi a pagamento – che tra gli anziani intervistati a Brescia si configuravano per lo più come aiuti a ore, forniti una o due volte alla settimana, da lavoratrici della cura straniere – sembrano aver subito i maggiori “scossoni”, soggetti come sono stati a due spinte per certi versi opposte. Da un lato, l’anziano o la famiglia hanno interrotto i rapporti con una persona a pagamento, o ne hanno ridotto la frequenza, per limitare le occasioni di contagio. Probabilmente, ciò non è successo nel caso dei servizi pubblici per il timore di perdere un servizio, ottenuto magari con fatica, che una volta interrotto per volontà dell’utente difficilmente sarebbe stato concesso di nuovo, e che a causa delle condizioni economiche dell’anziano non avrebbe potuto essere sostituito con un aiuto a pagamento, se non sporadico e di bassissima qualità. Dall’altro lato, sono state le persone a pagamento a interrompere o ridurre la frequenza del rapporto con l’anziano, in quanto si sono trovate di fronte ad un aumento della domanda di cura full-time dovuta alla pandemia, indice che una parte delle famiglie non le ha percepite come fonti di contagio, ma probabilmente come una soluzione per scongiurarlo (ad esempio, rendendo queste persone l’unico filtro fra l’anziano e il mondo esterno).

 

L’accesso ai servizi sanitari, com’era ipotizzabile, si è complicato. In particolare, i rapporti diretti col medico di base, descritti come sporadici già prima della pandemia, si sono ulteriormente rarefatti a causa delle precauzioni diffusamente adottate durante la prima fase del contagio (visite a domicilio solo per determinate patologie, visite solo su appuntamento e solo per specifiche problematiche, prescrizioni da richiedere a distanza e inviate alle farmacie o al paziente via e-mail, ecc.). Se gli anziani che già prima della pandemia avevano col medico di base rapporti mediati da un familiare o da un servizio non si sono neppure accorti dei cambiamenti menzionati, quelli che avevano rapporti diretti hanno manifestato problematiche di diversa natura: un senso di ulteriore abbandono da parte del medico di base, la difficoltà di recuperare le prescrizioni in una farmacia che non era la propria, il senso di dipendenza dai propri figli data dall’impossibilità di ricevere o stampare le prescrizioni elettroniche. L’accesso alle prestazioni specialistiche si è fatto anch’esso più difficile: alcuni anziani si sono visti sospendere visite di controllo, relative talvolta a problematiche di una certa gravità (visite dall’ematologo, dal diabetologo, dall’oncologo), o vi hanno rinunciato per paura.

 

 

Reti sociali, ruolo degli strumenti di comunicazione e senso di solitudine

 

Come prevedibile, la pandemia ha ridotto i contatti di persona che gli anziani intrattenevano con le loro reti sociali. Tuttavia, se i contatti face-to-face con i figli si sono interrotti o diradati per le ragioni forti già elencate in precedenza (un figlio malato di Covid-19, una figlia soggetto a rischio, ecc.), i contatti di persona con i nipoti o con altri familiari, di solito quelli poco o per nulla coinvolti nel sistema di cura, e quelli con amici, vicini o conoscenti, si sono interrotti o diradati per limitare le occasioni di contagio. I contatti a distanza, dove presenti, sembrano invece aver tenuto, ma contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato non sono aumentati. Chi ha diminuito i contatti face-to-face con familiari e amici, li sentiva al telefono con frequenza giornaliera (o quasi) anche prima della pandemia, mentre chi ha diminuito i contatti di persona con vicini o conoscenti, non li ha sostituiti con contatti telefonici probabilmente perché non abituato a farlo. Ed infatti, coloro che possiedono un cellulare o uno strumento di comunicazione digitale (smartphone, tablet o PC), durante la pandemia non ne hanno fatto un uso maggiore di prima. Semmai, hanno appreso e utilizzato modalità più “ricche” di comunicazione (ad esempio, le videochiamate).

 

I minori contatti di persona con familiari, amici e vicini, così come, più in generale, il clima di chiusura sociale che si “respirava” durante il lockdown, non sembrano aver influito sul senso di solitudine delle persone anziane. Infatti, confrontando la percezione soggettiva di isolamento sociale rilevata dall’indagine del 2019 con quella emersa dal follow-up del 2020, non sono emersi cambiamenti di rilievo.

Da un lato, nel caso degli anziani che l’anno precedente avevano manifestato un basso livello di solitudine (cioè lieve o moderato[8]), la situazione durante la prima fase della pandemia non sembra essere mutata. Prima della crisi pandemica essi trovavano unicamente nella propria persona, nel loro passato e nei loro interessi, un riparo dal senso di solitudine, mentre nessuno di loro aveva attribuito il basso livello di solitudine alla presenza di una rete familiare o più in generale sociale. Dunque, è probabile che queste persone abbiano fatto leva sulle medesime risorse per arginare il senso di solitudine durante la pandemia.

Dall’altro lato, la mancanza di cambiamenti di rilievo dal punto di vista del senso di isolamento ha riguardato anche le persone anziane che durante le interviste condotte nel 2019 avevano manifestato un livello di solitudine elevato o molto elevato, attribuito principalmente a carenze relazionali. In questi casi, probabilmente, gli anziani non hanno percepito la riduzione dei contatti in presenza causata dalla pandemia come particolarmente significativa. E in effetti, qualcuno ha dichiarato di sentirsi in una situazione di lockdown già prima dell’emergenza; segno, questo, di uno stato di profonda solitudine ormai incancrenitosi.

 

 

Conclusioni

 

In sostanza, gli impatti indiretti prodotti dalla pandemia, e dalle conseguenti restrizioni e paure, sulle persone anziane intervistate nell’indagine del 2019, sembrano aver coinvolto principalmente:

  • gli anziani con un livello di fragilità lieve o moderato, ovvero quelli che potevano uscire, ma che si sono ritrovati fortemente limitati negli spostamenti, con una conseguente riduzione delle loro capacità di movimento residue;
  • i servizi a pagamento, interrotti o ridotti dall’anziano o dalla famiglia per limitare le occasioni di contagio, oppure dagli stessi prestatori di cura oberati da una domanda di assistenza full-time legata alla pandemia;
  • i rapporti con il medico di base, che si sono fatti ancora più sporadici, e l’accesso a visite specialistiche, sospese dal servizio sanitario o dagli stessi anziani.

 

Infine, la pandemia, pur non avendo avuto ripercussioni sul senso di solitudine degli anziani, ha dato la “misura” dello stato di profonda solitudine sperimentato da alcuni di loro ancora prima dell’emergenza, tale da essere paragonato a un lockdown.

 

[1] Il progetto INclusive AGEing in place (IN-AGE) è finanziato da Fondazione Cariplo (grant n. 2017-0941).

[2] Se ci si dovesse basare sui numeri, che però non sono in alcun modo rappresentativi, potrebbe essere così, visto che solo due dei 24 anziani coinvolti nell’indagine del 2019 hanno contratto il Covid-19.

[3] Successivamente, sono stati individuati casi di Covid-19 antecedenti a questo. L’ultimo in ordine di tempo, quello che attualmente è considerato il caso 1 in Italia, è una donna di Milano che avrebbe contratto la malattia già nel novembre 2019.

[4] Istat-Iss (2020), Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente – Periodo gennaio-maggio 2020, 9 luglio 2020.

[5] Brescia Today (2020(, Coronavirus Brescia: decessi, fasce d’età, patologie pregresse al 1° aprile 2020. Le statistiche dettagliate dall’inizio della pandemia, “Brescia Today”, 4 aprile, https://www.bresciatoday.it/attualita/coronavirus/eta-media.html.

[6] Ministero della Salute, DEP Lazio (a cura di) (2020), Andamento della mortalità giornaliera (SiSMG) nelle città italiane in relazione all’epidemia di Covid-19 fase II – I rapporto – 6 Maggio – 16 Giugno, http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2928_allegato.pdf.

[7] I livelli di fragilità (lieve, moderato, elevato, molto elevato) sono stati definiti sulla base del numero di attività della vita quotidiana che gli anziani non erano in grado di svolgere.

[8] A partire dalle interviste agli anziani condotte nel 2019 sono stati individuati quattro livelli di solitudine:

1) “Nulla o lieve”: la persona anziana non si sente sola o percepisce raramente un senso di solitudine.

2) “Moderata”: la persona anziana ogni tanto si sente sola, ma questa sensazione è legata ad eventi contingenti (ad esempio, un giorno di pioggia), a determinati momenti della giornata o della settimana (ad esempio, la sera prima di andare a dormire o nel fine settimana), a definiti periodi dell’anno (ad esempio, durante le principali festività), e quasi mai è descritta come sensazione intensa.

3) “Elevata”: la persona anziana si sente spesso sola e questa sensazione è intensa.

4) “Molto elevata”: la persona anziana si sente spesso sola e questa sensazione è così intensa da generare effetti psico-fisici percepibili: stati depressivi, insonnia, incapacità di trovare un senso alla propria vita e, in qualche raro caso, pensieri suicidi.